Il sogno del prigioniero
Albe e notti qui variano per pochi segni.
Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d’aria polare,
l’occhio del capoguardia dello spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolio dalle cave, girarrosti
veri o supposti – ma la paglia é oro,
la lanterna vinosa é focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.
La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche ;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel patée
destinato agl’Iddii pestilenziali.
Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull’impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
scironate all’aurora dai torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo e il minuto –
e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa é lunga,
il mio sogno di te non é finito.
(Eugenio Montale)
Stasera vi porto Montale. Questo testo è ospitato nell’ultima sezione di Conclusioni Provvisorie della Bufera e altro. Questa raccolta, pubblicata nel 1956, è quella in cui emerge netta la disillusione delle speranze del dopoguerra, dettata sia dagli eventi storici ( il tentativo di DC e PCI di imporsi), ma anche dai lutti personali.
È proprio dagli orrori dei regimi totalitari che Montale attinge per immaginare il contesto in cui calare il sogno.
Nel Sogno, abbiamo un prigioniero rinchiuso in un luogo in cui notte e giorno si alternano senza che vi sia realmente distinzione tra loro. Da questa prigione, l’unica visuale possibile per il poeta è il zigzagare degli stormi -loro così liberi a testimoniare per contrasto l’oppressione della sua cattività- o l’occhio della guardia che si affaccia allo spioncino. L’unica via di speranza cui appigliarsi sono esattamente le ali degli animali volanti. Se solo riuscisse a dormire, persino la paglia del giaciglio diventerebbe oro e verrebbe cullato dalla piccola lanterna che si trasfigurerebbe in focolare. Ma non gli è possibile riposare ed è costretto a svolgere il suo ruolo di oca in attesa di essere cucinato: esattamente come quell’animale, lui e i suoi compagni si ritrovano intrappolati in un piccolo spazio angusto da cui poter uscire solo soccombendo o tradendo i propri simili, diventando a propria volta aguzzini. Nella terza parte la cattività sta facendo impazzire il protagonista, che inizia ad accusare il proprio giaciglio di averlo ferito, mentre si immagina come una tarma volante. Inizia così il sogno: sente l’odore dei buccellati (dolci lucchesi) portato dal vento- forse nella realtà gli unici forni in azione sono quelli dei campi di sterminio?-, i torrioni vicini diventano kimono colorati, circondati da arcobaleni sulle ragnatele- il suo orizzonte- e petali sui tralicci delle inferriate. Il poeta si alza, ma ecco che improvvisamente il sogno svanisce e si ritrova inghiottito dal buio della stanza, dove il tempo non passa mai. Non sa ancora se alla fine sarà un’oca farcita o un farcitore.
Questa prigionia letterale viene a simboleggiare quella esistenziale metaforica in cui vive l’uomo, di quel tempo sicuramente, ma anche l’uomo in generale in qualsiasi tempo e luogo. L’unica via di scampo è il sogno, portato dalla donna angelo.
Non sentivate parlare di donna angelo dai tempi di Dante? Non è un caso: è evidente che Montale attinga a piene mani, a distanza di tanti secoli, dall’immaginario dantesco della figura salvifica dantesca, pur mutandola profondamente. Se in Dante la donna era strumento divino di trascendenza e di purificazione voluta da Dio, in Montale diviene almeno in parte allegoria di valori laici: la Seconda guerra mondiale è sentita dal poeta come bufera, allegoria della barbarie (il nazi-fascismo) che si abbatte sul mondo storico e sui valori della civiltà occidentale. Clizia, la figura allegorica dominante fin dalle Occasioni, è una nuova Beatrice mediatrice però non per un approdo religioso, ma piuttosto nella ricerca di una soggettiva speranza da parte del Montale poeta e uomo.
E cosa c’è di più dantesco di un inferno? Il prigioniero avverte percezioni fisiche evocanti immagini grottesche di tortura e di morte (corpi straziati, ossa frantumate, etc). Le metafore gastronomiche (noci schiacciate, girarrosti, olio che frigge dai forni) rappresentano i campi di sterminio, i forni crematori e le persecuzioni. Montale deriva le immagini dalla cucina infernale dal Dante delle Maleborge, dove i dannati sono uncinati nella pece bollente dai diavoli-cuochi, che ne immergono le carni nei pentoloni perché non galleggino (Inferno, canto XXI).
Siamo tutti prigionieri. Per dirla con Eliot, “In our empty rooms […] I have heard the key/ Turn in the door once and turn once only/ We think of the key, each in his prison/ Thinking of the key, each confirms a prison”.
Siamo tutti prigionieri nelle nostre stanze vuote e qui mi viene spontaneo ricordarvi che, come dice Emily Dickinson, “Non c’è bisogno di essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi, non c’è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio materiale ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma esterno piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato”.
Sentiamo persino la chiave della nostra prigione girare, ed è proprio pensando a quella chiave che ci confermiamo imprigionati.
Non ci resta che rifugiarci nel sogno per fronteggiare la realtà opprimente.
Margherita Battistini