Il “tratto” e il volto
La preghiera più nota, famigliare (e di accreditate origini) che viene recitata da secoli nell’Occidente cristiano, comincia, come è noto cosi: Padre Nostro che sei nei cieli…Non ci si è mai chiesti, a dire il vero, perché mai – anche in considerazione delle successive spiegazioni catechistiche ove si precisa che Dio deve essere comunque inteso come onnipresente “in cielo e in terra e in ogni luogo” – non si fosse potuto, già nella sua prima formulazione, recitare il Padre Nostro con una più precisa indicazione della collocazione spaziale.
In realtà, forse non sarebbe stato possibile pretendere altrimenti – e non solo per ragioni di puri influssi e acquisizioni di tradizioni ideologiche per cui nelle varie culture gli dei “positivi” vengono collocati sempre sopra qualche altura (come ad esempio sul monte Olimpo, o sul monte Sinai) – ma per una serie di cause molto più profonde e strutturali, connesse alle diverse modalità con cui il cervello umano gestisce i piani spaziali, anche al fine di organizzare lo scenario su cui proietta le sue rappresentazioni e le sue immagini.
Questa premessa ci consente di segnalare una ricerca di grande interesse ed eccellenza, che suggerisce un modello affatto nuovo per lo studio e l’approfondimento del concetto di spazio. Lo studio a cui ci riferiamo è The role of the extrapersonal brain systems in religious activity del neurologo Fred Previc e pubblicato in Consciousness and Creativity (1).
Sul piano concettuale, la nozione di “spazio” rinvia tradizionalmente ad una rappresentazione univoca, nonché astratta di questo elemento. Tutti i vari “spazi” euclidei o non euclidei rinviano ad una unica “realtà” – se così si può definire – astratta uniforme e indifferenziata, capace poi di essere intellettualmente sagomata a grande piacimento, ma in qualche modo originariamente “pura” e omogenea – lo spazio.
Quando il matematico si mette ad argomentare avendo davanti il triangolo di Euclide oppure la sfera di Poincaré, sarebbe dunque un inutile disturbo avvicinarsi al nostro teoreta per chiedergli di precisare in quale luogo egli immagini tale triangolo, ossia se lo immagina sulla luna, oppure alla distanza di pochi metri dalla scrivania o ancora più vicino a sé. Il matematico reagirebbe con espressione incredula o di compatimento a tale insulsa domanda, e il suo umore certo non muterebbe anche quando facessimo notare che, in origine, proprio Platone, grande filosofo matematizzante, poneva triangoli e cerchi nel mondo iperuranico, proprio nella casa del dio, essendo questi i soli strumenti celesti che la divinità avrebbe potuto utilizzare, come scritto nel Timeo, per creare il mondo delle cose umane. Pensando infatti alla divinità, dobbiamo notare che, non solo nella filosofia platonica, ma anche nella iconografia che si è tramandata nel tempo, non solo questa viene collocata su infinite altezze o spazi celesti, ma viene anche rappresentata con qualche figura geometrica appresso, quanto meno un triangolo, da cui in seguito si è rappresentata la sua trinitaria natura.
Questo “apparentamento” tra l’immagine del divino, la rappresentazione del “volto” divino, e la geometria è uno degli stereotipi più importanti nella storia dell’evoluzione umana. Infatti, esso è legato ad un processo che potremmo definire del “riconoscimento del tratto”, o delle forme del volto e della figura. Questa funzione del “riconoscimento del volto e della figura” – riconoscimento del tratto – è essenziale dal punto di vista evolutivo, non solo perché consente di potere distinguere presenze famigliari e amiche da presenze di estranei potenzialmente pericolose, ma anche di poter indovinare, dalla espressione del volto dell’altro, l’umore e la disposizione d’animo della persona che ci è appresso. Per questo, questa funzione ermeneutica originaria e primitiva, viene immediatamente codificata nelle aree prossime al sistema limbico emozionale, in particolare nelle regioni prossime ai lobi temporali inferiori (Cfr. R. Joseph, Neurotheology – Brain, Science, Spirituality, Religious Experience,) (2).
Queste stesse aree, non solo risultano sensibili alla lettura del “volto dell’altro”, ma parimenti, secondo la nostra opinione, sono sensibili ai “tratti geometrici” che rendono possibile tale riconoscimento, ossia alle primitive figure geometriche, che assumono in questo caso valenza simbolica: il cerchio, il triangolo, la croce, la linea. Infatti il cerchio è lo stereotipo dell’ovale del viso, la croce rappresenta l’incrocio perpendicolare della linea che comprende l’asse delle due sopracciglia (gli occhi) con la linea rappresentata dal naso, il triangolo è il naso stesso (profilo) o comunque la particolare spigolosità del viso.
L’umanizzazione della trascendenza
Esiste una espansione simbolica molto forte di questi segni ed anche interpretazioni a volte approssimative e gestite da luoghi comuni. Sembrerebbe ad esempio incomprensibile il rapporto che, nell’ambito occidentale, connette il segno della croce (uncinata o no) con i movimenti razzisti e xenofobi. Questo rapporto diventerebbe forse più chiaro se si interpretasse questo simbolo a partire dal suo significato più antico, ossia come il simbolo del volto dell’altro, e perciò come infrastruttura in cui viene pensata l’alterità, con valenza sia positiva che negativa. È un segno bivalente dove significato positivo (l’accettazione del volto dell’altro) o negativo (disprezzo del volto dell’altro) si confondono. Il circolo e la croce sono la rappresentazione del volto umano e sono anche i due simboli che ad esempio troviamo evidenziati in alcune sette come ad esempio il KKK. In questo caso esaltare la croce con questo significato vuol dire mettere in discussione un processo di riconoscimento o di non riconoscimento del tratto del volto dell’altro. Io ti riconosco (o non ti riconosco) come mio simile! La croce, come infrastruttura simbolico-emotiva di un processo di riconoscimento e/o non riconoscimento è stata perciò usata come strumento di supplizio per coloro che non si riconoscevano nel sistema sociale, ossia per coloro che venivano chiamati latrones – un termine nel mondo romano usato per definire i ribelli politici (non i “ladroni”, come comunemente si pensa!) come spiegato nel saggio di Brent Shaw, The Bandit, contenuto nel volume The Romans, a pagine 309, citato in bibliografia (3). Con questo suo significato recondito, atavico, precristiano, nella simbologia occidentale, la croce, è dunque rimasta come segno da agitare come monito e minaccia presso i “diversi”, e cioè coloro che non hanno le nostre fattezze o il colore del viso o che non appartengono al nostro “gruppo” sociale.
Per la stessa ragione connessa al riconoscimento dello specchio del volto dell’Altro, ossia per un processo emotivo primario limbico-temporale sul quale si costituisce l’ordine del simbolico, il dio “muore” sulla croce – sorte di crocifissione in cui già incorre il dio più antico d’Occidente – il dio dell’immagine-volto infranta allo specchio, Dioniso (4). Al di là di ogni possibile (e comunque plausibile) altra interpretazione, è però semplice comprendere che infine l’Altro (e cioè Dio stesso in quanto alterità assoluta) e la struttura simbolica in cui il nostro cervello codifica il volto di ogni alterità, debbano coincidere.
Comunque sarebbe sufficiente far caso ai disegni con cui i bambini rappresentano il volto umano o la figura umana per rendersi immediatamente conto del sottile rapporto che lega la divinità (il “volto di dio” o il volto dell’Altro) alla geometria. Triangoli, cerchi e croci sono infatti tra le più remote testimonianze graffitare tracciate dai nostri progenitori e fino a noi pervenute. Risalgono all’Uomo di Cromagnon, 35000 anni or sono, o homo sapiens sapiens. Tali grafi compaiono in una fase in cui assistiamo parimenti ad un incremento dei processi di socializzazione e perciò alla fioritura di quei rituali e gestualità su cui si sviluppò e trasse senso una primitiva cultura religiosa. La “gestione” dell’immagine del prossimo e l’elaborazione di una rudimentale e primitiva “simbolica geometrica” sono dunque processi concomitanti.
Il rapporto di intimità e prossimità che l’apparato cortico-temporale, gestore delle formazioni figurative intrattiene con l’adiacente sistema limbico – amigdala e ippocampo – fa sì che un eccesso di sollecitazioni sul piano emotivo possano comportare una anomala stimolazione dei lobi temporali, provocando una evocazione spontanea e scoordinata di figure, ossia può essere causa o concausa di processi allucinatori di natura visiva (visioni di volti, di fantasmi, apparizioni ecc.). L’apparato lobo-temporale è in generale chiamato in causa nel processo di produzione di eventi allucinatori, non solo come in questo caso, di natura visiva, ma anche di natura uditiva, data la particolare funzione che tali aree esercitano nel riconoscimento dei suoni e del linguaggio.
Questa attività produttiva di immagini non è solo stimolata da eventi patogeni, ma può essere ritenuta una modalità naturale con cui il cervello umano processa il mondo personificando segni e ombre. È questa anche la tesi di due autori, teologi, J. Ashbrook e C. R. Albright in The Humanizing Brain: Where Religion and Neuroscience Meet (5), secondo i quali, appunto, il cervello va interpretato come una struttura in grado di tradurre la trascendenza in un “linguaggio umano”, rendendola così a noi famigliare. Si tratterebbe dunque di una funzione “umanizzante”. La funzione del riconoscimento dei volti e soprattutto del riconoscimento del “volto dell’altro” acquista un particolare significato, perché è proprio attraverso il volto dell’Altro e in prim’ordine attraverso il volto di Dio, che si ottiene accesso alla dimensione della trascendenza. In questa tesi l’influsso di Levinas e del suo concetto del “volto infinito” (6), sono evidenti.
Nella costruzione dell’universo metaforico, noi vediamo una particolare frequenza nell’uso di metafore di tipo fisiognomico. Nei bambini, infatti spesso i frontali o i rilievi degli oggetti vengono interpretati come visi umani, così come forme umane sembrano le ombre notturne che ondeggiano ventose. Spesso il nostro cervello, osservando un pavimento maculato o una superficie maculata, estrapola da quelle macchie i profili di visi di persone.
Ma il fenomeno di “umanizzazione della trascendenza” certamente di assoluta rilevanza culturale è quello offerto della geometria del cielo stellato. Usando i puntini luminosi delle stelle l’umanità ha tracciato figure e storie. L’intero mondo degli eventi umani si è ristampato nel cielo. In questo modo l’umanità ha scritto in prima istanza la propria storia su una superficie celeste e ha trovato nel moto degli astri e nella modificazione di quelle figure delle risposte alle sue primitive domande sul senso delle cose terrene e quasi un prosieguo delle vicende terrene. Però c’è un altro motivo per cui questa storia è stata scritta in cielo, e lo vedremo illustrando, se pur in brevi linee, le geniali intuizioni di Previc.
Oltre confine
Se dunque la filosofia – ma anche il senso comune – tende a considerare lo spazio (e il tempo per un altro verso) dal punto di vista astratto come un concetto univoco e generale, dal punto di vista delle neuroscienze e del vissuto psichico, questa “generalità” può invece essere scomposta in modalità spaziali differenti, corrispondenti alle diverse modalità con cui il cervello processa e riorganizza i dati spaziali (o temporali).
Previc arriva ad individuare 4 diverse modalità di organizzazione dei rapporti spaziali a cui corrispondono differenti processi neurofisiologici di supporto. Egli arriva a formulare questa classificazione dopo un certo periodo di esperienza e di studio in un laboratorio per la prevenzione del disorientamento spaziale da parte dei piloti dell’aeronautica degli Stati Uniti, causa frequente di incidenti aerei. Potrebbe destare a prima vista sorpresa questo percorso di Previc che lo ha condotto dalle analisi delle esperienze di volo ad interessarsi di questioni celesti in senso spirituale. Però in questo caso il gioco della metafora, come nei sogni, nasconde delle trame effettive della coscienza. Il disorientamento spaziale non è solo legato ai presunti misteri del “triangolo delle Bermude”, ma questo “perdersi nello spazio”, legato alla seduzione dello spazio, è anche un poco connesso alle mitologie e leggende della nostra cultura, connesse sia alla ricerca di Itaca da parte di Odisseo, sia alla ricerca della Terra Promessa da parte di una tribù di pastori erranti nel deserto – il popolo di Dio.
Ma perché mai il popolo di Dio è per sua stessa natura il popolo errante? Perché Mosè incontra Dio sulla sommità del più alto monte? Perché mai la Terra Promessa si offre anch’essa per la prima volta alla vista dall’alto del monte? Il libro dell’Esodo racconta un viaggio reale, oppure un viaggio immaginario, non diversamente dal viaggio di Odisseo, o dal viaggio di Enea?
Queste ed altre domande possono trovare alcune risposte sulla base della teoria sui meccanismi cerebrali di mappatura degli spazi distali di Fred Previc e del loro rapporto con i meccanismi affini di eccitamento delle formazioni ideologiche, con particolare riguardo al fenomeno storico di sviluppo della religiosità in particolare. In origine è probabile che Previc abbia trovato lo spunto per passare da rilevazioni e studi sul fenomeno del disorientamento dei piloti ad una teoria sulla religiosità, da alcuni rilievi che non gli devono essere apparsi secondari, ossia dalla constatazione che la percorrenza e la pratica di navigazione degli spazi distali evoca un eccitamento del sentimento religioso. Questo fenomeno è stato riscontrato ad esempio negli astronauti nelle più estreme altitudini, come documentato da testimonianze raccolte, e che narrano di sensazioni assai simili agli stati mistici, di depersonalizzazione o da stati di alterazione assai simili alla assunzione di sostanze stupefacenti associabili ad un innalzamento dell’attività dopaminergica e alla riduzione di apporto di ossigeno (ipossia).
Ma il fatto che “lassù” possano accadere “strane cose”, non è solo una suggestione che troviamo tra l’altro ben rappresentata in un racconto straordinario, quale Il Gabbiano Jonathan Livingston, di Richard Bach (7), ma corrisponde alla frequenza con cui questi migranti degli spazi distali sembrano soggetti a visioni e allucinazioni, alla visione di UFO o miraggi. Anche l’episodio narrato da Matteo (17, 1-9) nei Vangeli – restando nell’ambito di una letteratura nota -, secondo cui “[…] Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui” diventa significativo per il fatto che tale evento – che per taluni è un atto divino, per altri un fenomeno allucinatorio – avviene, come descritto “su un alto monte”.
Raccogliendo queste varie sollecitazioni ed esemplificazioni, possiamo dare più consistenza alla intuizione di un più vasto e profondo legame che connette la gestione della spazialità ad importanti eventi della cultura. Questo significa non solo che il senso religioso stringe un forte legame con la primitiva geometria del simbolico (triangoli, piramidi, croci, cerchi ecc.) come abbiamo visto nel capitolo precedente, ma anche e soprattutto che il sentimento della religiosità in generale si espande in una prospettiva di gestione e di mappatura dello spazio distale.
Esiste una forma di “eccesso esplorativo” nella coscienza spaziale che spinge l’esperienza umana a penetrare in una forma di “iperspazio” che corrisponde ad un “altro mondo” o a cercare una forma di “ipervisione” che corrisponde ad una estensione delle facoltà di organizzazione della spazialità corrente. In sintesi la tesi di Previc può essere espressa da questo passo tratto (pag. 512) dal saggio in precedenza citato:
Come l’anima è una estensione dello spazio corporale, così la figura di Dio e del Paradiso estendono il concetto dello spazio al di là di ogni massima distanza, mentre il concetto di Aldilà estende il tempo al di là del periodo finito della nostra vita. I concetti di Dio e del Paradiso sono in modo indissolubile legati allo spazio superiore. Così presso gli Ebrei la parola “El Elyon” che indica Dio significa “Altissimo”, “esaltare” nella lingua latina ha a che fare con il portare in alto, “trascendenza” connota un movimento che si dirige verso l’alto, “soprannaturale” denota indica un livello di esistenza che si svolge ad un piano superiore.”
Questo “volgersi verso l’alto” non è però interpretabile come un semplice fatto culturale, come una figura metaforica tramandata, ma trova fondamento in un fatto fisico inequivocabile che trova riscontro nello stralunamento dei bulbi oculari, ossia nel riversarsi dello sguardo su estremità superiori che possiamo riscontrare in una quantità di fenomeni, sia di tipo estatico-meditativo, sia di natura allucinatoria o di tipo onirico (sonno REM). Questo riflesso oculare tradisce dunque la complessità di un sistema sottostante sia di tipo neuroanatomico che di tipo neurochimico che Previc esplora, evidenziando l’esistenza e la struttura di canali condivisi che accomunano fenomeni variamente classificati – il sogno, le visioni, le allucinazioni, le estasi, il trasporto mistico e religioso – e che comportano una particolare produzione o alterazione di scenari visivi, e il dominio assoluto di campi visivi superiori.
Le quattro categorie spaziali di Previc
Relativamente ai processi neurochimici coinvolti possiamo solo anticipare che queste reazioni di stravolgimento e di accentuazione della spinta oculare verso l’alto è connessa alla alterazione in eccesso del rilascio di dopamina, come evidenziato nell’esperimento del “ratto in estasi” o con gli occhi puntati verso il cielo (stargazer). Viceversa, una negligenza del campo visivo superiore è spesso connessa a lesioni alla substantia nigra e perciò ad una crisi del sistema dopaminergico. Parimenti possiamo constatare nei soggetti depressi, dove prevale il sistema serotoninergico su quello dopaminergico, l’assunzione tipica di un postura dimessa del corpo e dello sguardo volto tendenzialmente verso il basso.
Una identica rotazione degli occhi, oltre negli atti di preghiera o di meditazione, viene però naturale in particolari atti di concentrazione della mente su oggetti matematici. Per questo, la domanda impertinente che avevamo rivolto al nostro matematico, ossia dove mai si trovasse il triangolo su cui stava meditando, non sarebbe stata nemmeno così insulsa. Effettivamente il triangolo si trova, come pensava Platone, nella stessa direzione verso cui vanno le preghiere, ossia in cielo, nella casa del dio.
Con ciò veniamo alla classificazione degli ambiti spaziali di Previc. Nel saggio citato egli distingue 4 tipi di categorie o ambiti (realms) in cui si organizzano le relazioni spaziali nello spazio tridimensionale.
La prima distinzione è tra lo spazio peripersonale che si estende nell’ambito ristretto delle capacità prensili dell’individuo e le restanti 3 dimensioni (extrapersonali) che invece si sviluppano all’esterno di questa area prossimale. Tra queste, lo spazio ambientale, relativo alla gestione delle posture e degli spostamenti del corpo nell’orizzonte e nell’orientamento circostante, può essere interpretato come una ulteriore estensione dell’ambito peripersonale, mentre le restanti dimensioni sono “puntate” decisamente alla gestione delle dimensioni spaziali distali. Così gli ambiti di gestione dello spazio a) peripersonale e b) ambientale possiedono una inclinazione prevalente verso il basso, dove sono posizionati gli arti di manipolazione e di locomozione, mentre lo c) spazio focale è l’unico spazio a base retinotopica e prevalente indirizzato in avanti-alto e raccolto in un cono centrale della dimensione del 30% del campo visivo. Ha certamente limiti di campo, ma ha una maggiore capacità esplorativa e di individuazione di oggetti attraverso gli indirizzamenti del moto oculare.
Lo spazio focale è imparentato con l’ultima e più estesa dimensione, che Previc chiama d) action extrapersonal space system – sistema spaziale extrapersonale operativo – la cui struttura “usa principalmente informazioni uditive e visive che ci consentono di orientarci, di navigare e di interagire nello spazio topografico” (pag. 503) e consente perciò di gestire uno spazio a 360 gradi. Questo sistema è strettamente connesso ai processi di memorizzazione dei luoghi e degli eventi, nonché alle situazioni emotive associate, e consente parimenti un uso estensivo e a vasto raggio dei movimenti della testa che anticipano i movimenti del corpo nello spazio ed integra input visivi, uditivi, propriocettivi e vestibolari. Anche questo sistema, come quello focale, è diretto prevalentemente verso l’alto.
Queste classificazioni sono in parte supportate da differenziazioni riscontrate sul piano neuroanatomico (e neurochimico), poiché questi sistemi spaziali usano canali differenti, nel senso che il cervello processa e gestisce questi ambiti spaziali utilizzando risorse e percorsi differenti.
La differenza essenziale tra i sistemi a) e b) (peripersonale e extrapersonale ambientale) e c) e d) (spazio extrapersonale focale e extrapersonale operativo) consiste nel fatto che i primi utilizzano sul piano neuroanatomico la corrente dorsale che si estende dal canale visivo dorsale, mediante le parti laterali e mediali dei lobi temporali, fino a raggiungere le parti superiori laterali dei lobi frontali, i secondi – pur nelle loro reciproche differenze funzionali e anatomiche – privilegiano il percorso ventrale, coinvolgendo i lobi occipitali e temporali per raggiungere le parti mediali e basali dei lobi frontali.
Nel modello di Previc, il sistema spaziale extrapersonale operativo (che si sviluppa con una inclinazione verso l’alto) è di gran lunga il più significativo al fine di comprendere i fenomeni di coscienza connessi alle esperienze visionarie, oniriche o alle rappresentazioni mistiche e religiose. Questa particolare importanza non è dovuta solamente alla complessità del sistema ed alla sua interazione con apparati limbici e corticali sensibili e altrimenti interessati nella coscienza religiosa (quali ad esempio i lobi temporali come in precedenza accennato), ma ancor sì per una ragione neurochimica, vista la natura del neurotrasmettitore, la dopamina, che tale apparato utilizza in modo prevalente.
In generale le particolarità che caratterizzano i diversi sistemi di gestione della spazialità sono, secondo Previc, riconducibili ad almeno tre fattori. In primo luogo, come detto, al pathway ventrale dei sistemi di gestione della focalità e dello spazio distale operativo, in secondo luogo alla predominanza della trasmissione dopaminergica nei sistemi spaziali extrapersonali rispetto al sistema spaziale peripersonale in cui predomina invece la conduzione serotonergica e noradrenergica. Infine, in terzo luogo, riguardo alla “emisfericità” abbiamo una prevalenza dell’emisfero sinistro per quanto riguarda la gestione della spazialità extrapersonale, mentre abbiamo una prevalenza dell’emisfero destro nella gestione dello spazio peripersonale, come rilevato nello studio dei casi di aprassia e di negligenza del corpo (alterata immagine del proprio corpo) nel caso di lesioni a tale emisfero. Nel qual caso, dacché prevalgono le funzioni situate nell’emisfero sinistro, e perciò una percezione alterata ed estrovertita della spazialità, il soggetto ha la netta impressione che il suo essere sia in balia di agenti esterni.
Lo spazio extrapersonale, sogni, allucinazioni, esperienze extracorporee
I sogni, le allucinazioni ecc. rappresentano “il trionfo dei sistemi spaziali extrapersonali sui sistemi peripersonali orientati sul corpo” (pag. 507). Questa affermazione può essere comprovata da alcune considerazioni sui sogni che ciascuno potrà fare facilmente analizzando se stesso. Infatti ad esempio, se sogniamo di guidare una automobile, raramente noi visualizzeremo le nostre mani (e neppure avremo percezioni tattili, ma solo uditive e visive). Pur avendo chiara percezione dello spostamento con la nostra auto onirica in uno spazio operativo a largo raggio, la nostra presenza rimane risucchiata dalla spazialità stessa, come se fossimo proiettati più avanti rispetto al piano logico di riferimento. Anche i piani visivi sono tendenzialmente rivolti nella direzione avanti-alto, al punto che raramente vengono fissati oggetti a terra. Quando ciò accade, l’oggetto a terra viene però inquadrato in una prospettiva come se noi lo guardassimo protendendoci da una finestra virtuale collocata in un punto sovrastante, in modo da far sì che sia conservata sempre la direzione avanti-alto del piano oculare – lo stesso sguardo con cui un dio guarderebbe il mondo. In sintesi già nel momento onirico in generale possiamo esperimentare questo primato dello spazio puro extrapersonale, uno spazio completamente estrovertito, in sé dal quale il soggetto quasi risulta assorbito.
La predominanza del sistema di spazialità extrapersonale sulla spazialità peripersonale durante i sogni trova anche conferma nella attivazione/deattivazione dei percorsi neuronali che gestiscono le due forme della spazialità, per cui, più un sogno è vivace e impresso e maggiormente sarà possibile constatare una attività nella corrente limbico-ventromediale (con interessamento delle aree occipitali, temporali, parietali e frontomediali – la stessa su cui su cui confluisce il sistema di spazialità extrapersonalee una parallela deattivazione dei circuiti dorsali che gestiscono le spazialità peripersonale.
Sul piano fenomenologico, il sogno è l’esperienza più elementare e comune, dove tutti in generale possiamo accedere ad un modello che resta comunque alla base di fenomeni più complessi e drammatici, in parte associati a patologie, in parte associati a fenomeni mistico-religiosi. In sintesi, i risultati, sul piano neuroanatomico, delle ricerche di Previc vengono da lui stesso così riassunte (pag.518):
L’esplorazione della neuroanatomia e della neurochimica dei sogni, delle allucinazioni, delle credenze, delle pratiche e delle esperienze religiose nell’uomo indica che ci può essere un sostrato neuronale comune a tutte questi fenomeni comportamentali che riflettono il predominio all’attività sistemica spaziale extrapersonale e una pari riduzione dell’attività orientata sul corpo. Sulla base della loro neuroanatomia, sogni, allucinazioni ed esperienze religiose possono essere tutte quanto mediate dal canale ventromediale (limbico-corticale) che si estende dal lobo temporale mediale alla parte anteriore del cingolo e alla corteccia prefrontale. Viceversa si riscontra una minore attivazione o addirittura una deattivazione delle aree occipitali e parietali durante questi fenomeni.
Una serie di esperienze che possono essere riscontrate (e raccontate) nella letteratura religiosa, quali esperienze di voli extracorporei, rapimenti o di traslazione in altri mondi, sono già impliciti nella fenomenologia dei sogni, al punto che già sul piano filosofico, ad esempio già in modo chiaro in Schopenhauer, si parla appunto di un “organo del sogno”, per indicare una funzionalità elementare che sta alla base di ogni altra attività di natura visionaria o “paranormale” della mente (8). Previc, con il suo studio, ha in particolare evidenziato questo processo, in cui troviamo in sogni, allucinazioni schizofreniche, visioni ecc. la costante di una inibizione della spazialità propriocettiva, peripersonale ed una esaltazione del sistema di gestione della spazialità operativa extrapersonale con pari esaltazione del campo visivo volto verso il cielo.
Il ruolo della dopamina
Parimenti, considerando invece l’aspetto neurochimico e l’equilibrio dei neurotrasmettitori (sempre in linea generale), Previc evidenzia una pari prevaricazione della corrente dopaminergica su quella serotonergica:
[…] Il più consistente mutamento neurochimico associato a tutti questi comportamenti è l’innalzamento della DA-dopamina, particolarmente nelle aree corticali ventromediali. Viceversa l’acetilcolina è elevata durante il sogno, ridotta durante la maggior parte delle allucinazioni, e inconsistente durante la meditazione, mentre la norepinefrina è ridotta durante il sogno, ampiamente indifferente durante le allucinazioni e presumibilmente ridotta nei comportamenti religiosi. La serotonina è a sua volta ridotta durante i sogni, le allucinazioni e i comportamenti mistici.
Quindi, non solo, come abbiamo citato nel caso del ratto stargazer l’eccesso di dopamina si coniuga con una forzata torsione degli occhi e della testa verso l’alto (oculogyric crisis), ma che in qualche modo il rilascio di dopamina o la prevalenza di questo neurotrasmettitore, sia connessa ad un aumento del senso del piacere. Questo effetto è abbastanza verificabile considerando il piacere che ci recano generalmente i sogni – coerentemente con quanto aveva teorizzato anche Freud. Ma anche la religione, come il sogno, è fonte di piacere e di conforto ed è il miglior farmaco che la natura ha fornito all’uomo per contrastare il dolore, la depressione, la de-motivazione devastante, la perdita del senso della vita. In questo senso non è del tutto inappropriato la definizione ottocentesca, anche se eccessivamente materialista, della religione come “oppio dei popoli”.
L’assimilazione ristretta del fenomeno religioso alla sfera puramente neuroanatomica e neurochimica che accomuna sogni, deliri e allucinazioni, può valere solo considerando situazioni limite, dove vediamo ad esempio il disturbo schizofrenico o patologico convertirsi facilmente in delirio religioso e viceversa, oppure considerando la religiosità nelle sue espressioni antiche e primordiali dove in effetti questi rapporti erano molto più evidenti (così come sono presumibilmente evidenti, secondo molti autori, le patologie visionarie a sfondo epilettico di Paolo di Tarso o di Maometto).
Per un altro verso, in senso generale, l’ipotesi di un originario e primitivo circolo della reiterazione del piacere (o di una strategia di gestione di una “economia della libido”) che accomunerebbe nelle più antiche fondamenta religione e sessualità è la conclusione a cui giunge Newberg (9) al termine delle sue lunghe ricerche di neuroteologia e sulla psicologia delle religioni. Parimenti anche Dawkins (10), volendo rafforzare questo scenario, si spinge a chiamare il recettore DRD4, in cui si sviluppa il sistema dopaminergico, come “gene di Dio”.
Previc tende ad attribuire allo sviluppo del sistema dopaminergico un significato fondamentale per lo sviluppo dell’intelligenza umana e della cultura. Egli fa notare come l’espansione del sistema dopaminergico inizi nella evoluzione dei primati con una più omogenea distribuzione della dopamina attraverso il cervello, particolarmente nei suoi strati superiori. Un riflesso della continua espansione del sistema DA negli umani è il vasto aumento (circa il doppio, relativamente al peso corporeo) della DA nello striato rispetto agli scimpanzé, i quali usano la maggior parte del loro tempo nelle attività peripersonali.
In parte l’alterazione dei valori nell’equilibrio neurochimico dovrebbe essere valutato anche in relazione alle diete e alle abitudini alimentari. Il rapporto tra religiosità e varie pratiche di digiuno è diventato ormai uno stereotipo dell’immaginario comune. Nella società pingue ed opulenta, il tasso di religiosità diminuisce, così come diminuiscono, nei topi obesi, i recettori della dopamina, secondo una ricerca condotta da P. Thanos dello U.S. Department of Energy’s Brookhaven National Laboratory. Questo dato conferma però un principio già consolidato negli studi sull’organismo animale. A conferma vediamo infatti che persino i polli, sottoposti a lunghe pratiche di digiuno, moltiplicano i recettori dopaminergici come riportato nello studio di Koál-Výboh-Savory-Juráni-Kubíková-Blaíek, Influence of food restriction on dopamine receptor densities, catecholamine concentrations and dopamine turnover in chicken brain, citato in bibliografia (12). (11)
Il digiuno, la fame, la sottoalimentazione attivano fortemente i circuiti in grado di sovraeccitare apparati (soprattutto a carico nell’emisfero sinistro) fortemente compromessi con la produzione di immagini, visioni e allucinazioni come in parte documentabili dalle patologie a carico del lobo temporale, che corrisponde all’area più coinvolta, in concomitanza modulare con i lobi parietali e con il cingolo, nel governo e nella orchestrazione di una vasta fenomenologia dello spirito connessa alla produzione di eventi di mitologica importanza.
I filosofi, dal canto loro, avevano da almeno un secolo preso una scorciatoia per anticipare questi risultati. Sull’aspetto determinante dell’alimentazione nella produzione di ideologie, ricordiamo che già Nietzsche, nel suo ultimo scritto Ecce Homo (13) si intrattiene a descrivere a lungo le sue abitudini alimentari, attribuendo ad esse un ruolo importante per la produzione delle sue stesse concezioni filosofiche. Sull’aspetto della religiosità in generale, già Feuerbach, nel suo più vasto progetto di dissoluzione della teologia in antropologia, afferma che attraverso il rapporto dell’uomo con Dio, in realtà si nasconde la verità del rapporto dell’uomo con l’uomo (14). Questa interpretazione è in effetti compatibile con la teologia (e con la neurologia) del “volto dell’Altro” a cui abbiamo all’inizio accennato, come originaria matrice culturale del “volto di Dio” o dell’”occhio di Dio”. In tal senso la religione diventa uno spazio simbolico, una metafora, una costruzione della coscienza attraverso la quale si organizzano, in funzione di consolidamento, comportamenti imitativi, simulativi, metaforici ecc. dove ciò che viene “simulato” – ossia acquisito – è il rapporto sociale (Io/Altro). L’attività simulativa, allegorica, metaforizzante è strutturale nella formazione di una coscienza, così come universalmente comprovato. Il rapporto dell’uomo con Dio è la simulazione del rapporto dell’uomo con l’uomo, ossia è l’origine, la matrice culturale in cui viene soggettivamente strutturato il rapporto sociale. Ma il più importante continuatore di Feuerbach, il giovane Marx (15), si è spinto ancora di più verso il superamento di ogni astrazione, sostenendo che il “vero” rapporto dell’uomo con l’uomo è, nella sua concreta verità … il rapporto dell’uomo con la donna.
In questo modo, anche la filosofia, pur procedendo a stento e per intuizioni, aveva già da tempo stretto il cerchio “dopaminergico” e gratificante in senso reiterativo del piacere che, sul piano del fondamento, connette in nuce religione e sessualità – religione ed economia del godimento. In altri termini le stesse conclusioni di Feuerbach trovano anche riscontro su piano neurobiologico, almeno secondo la tesi di Andrew Newberg, in Why God won’t away (9), secondo cui, in una prospettiva evolutiva, la neurobiologia della esperienza mistica e religiosa appartiene almeno in parte agli stessi meccanismi di risposta dell’istinto sessuale.
Nota conclusiva
La ricerca di Previc non sfrutta interamente la sua interessante intuizione della quadripartizione degli orizzonti spaziali. La dimensione spirituale che sarebbe principalmente toccata dai processi di spazializzazione e di organizzazione dello spazio extrapersonale, ossia l’arte figurativa, non viene ad esempio citata. Per quanto riguarda gli effetti sul piano della cultura, il saggio di Previc cerca di inserirsi nello stesso filone di ricerca della neuroteologia classica, con espliciti accenni ai lavori di Newberg, d’Aquili, Ramachandran e Persinger. Tuttavia, queste ricerche, se possono fornire importanti strumenti per penetrare e ricostruire percorsi più nascosti e inaccessibili della evoluzione dello spirito umano nei suoi primi stadi, non sembrano però strumenti adeguati per affrontare un concetto più moderno ed attuale di religiosità, dove la religiosità è sempre più interpretabile come un fatto etico e intellettuale non più fondato su trasporti mistici o visionari.
Costituiscono invece fonte di indubbio interesse alcune proiezioni teoretiche che possono estendere queste analisi al di là del semplice fenomeno religioso, interessando una sfera ad esso adiacente. Possiamo infatti evidenziare alcune possibili trasposizioni della teoria dalla sfera religiosa alla sfera geopolitica, dacché molto spesso l’immaginario che si misura con le grandi distanze celesti, case degli dei, costituisce anche una struttura di sostegno di un particolare rapporto con la territorialità e con le distanze terrene. I cieli e la terra si conquistano spesso insieme e il paradiso (il mondo iperuranico), oltre ad essere la sede delle pure figure geometriche e delle rette infinite, è innanzitutto eterna dimora di eroi e conquistatori, soldati e martiri che hanno combattuto per l’estensione e la salvaguardia di una “spazialità” reale o ideale dai più ampi confini.
È la conquista di uno spazio ideal-geografico che si apre nella sua vastità, sul quale si organizza una nuova percezione del territorio e che si esprime in una un ventaglio di leggende che narrano di un ipotetico, mitico viaggio originario – il viaggio di Mosé, di Odisseo, di Enea – in cui vengono esperiti, nell’immaginario i confini di una nuova concezione della territorialità. Gli eventi più misteriosi accadono sopratutto ai viandanti. Vediamo così sfilare nella storia processioni migranti di popoli e dei che insieme camminano verso terre promesse immaginate, sognate e osservate da remote lontananze.
Bibliografia
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- Joseph R. Neurotheology – Brain, Science, Spirituality, Religious Experience. University Press California 2003
- Shaw B.D. The Bandit. In: A. Gardina A., Cochrane L.G (eds). The Romans. University of Chicago Press 1993;300-341
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- Levinas E. Il volto infinito. Dialoghi 1992-1993. Bari: Ed. Palomar di Alternative 2000
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- Schopenhauer A. Saggio sulle visioni delle spiriti e su quanto vi è connesso. In: Parerga e Paralipomena. Milano: Adelphi 1998
- Newberg A., D’Aquili E., Rause V. Why God won’t go away: Brainscience and the Biology of Belief. New York: Ballantine Books 2001
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- Kostál L, Výboh P, Savory CJ, Juráni M, Kubíková L, Blazícek P. Influence of food restriction on dopamine receptor densities, catecholamine concentrations and dopamine turnover in chicken brain. Neuroscience 1999;94(1): 323-328
- Nietzsche F. EcceHomo. Come si diventa ciò che si è. Milano: Adelphi iu888888à+1991
- Feuerbach L. Principi della filosofia dell’avvenire. Torino: Einaudi 1946
- Marx K. Manoscritti economico-filosofici del 1844. Torino: Einaudi 1968
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